mercoledì 5 settembre 2012

A CHE PRO INSEGNARE INGLESE A SCUOLA?



Logo dell'ERA

Il 10 agosto 2012 il segretario dell’Associazione Radicale Esperanto (Esperanto Radikala Asocio; ERA) Giorgio Pagano ha pronunciato un discorso interessante e giusto, tranne che su alcuni punti. L’ottica da cui esamina la questione della lingua italiana, in particolare per quel che riguarda l’economia linguistica, è basata sulle idee dell’associazione che rappresenta, che si batte per l’imposizione dell’esperanto come lingua internazionale. Abbiamo già trattato su questo giornaletto il tema nell’articolo “inglese vs esperanto”. Riassumendo, in quell’articolo cerchiamo di spiegare le condizioni per cui non è verosimile che l’esperanto venga mai eletto a questo ruolo. Il problema è che questi militanti non considerano la lingua nelle sue reali implicazioni politiche e persino militari; non si rendono conto cioè che le lingue prestigiose, che vengono prese come lingue internazionali, lo sono in quanto portatrici e rappresentanti della cultura dominante in un preciso dominio storico. Dominante non solo e non per forza militarmente, ma spesso; sempre dominante economicamente; che vuol dire anche culturalmente. Il fiorentino in Italia sicuramente si è imposto per il prestigio datogli dalle "tre corone"; ma bisogna pure sempre tener presente quale potenza economica fosse Firenze e la Toscana allora in Europa e (quindi) nel mondo.  

G. Pagano. Sergretario dell'ERA
La lingua è quindi fortemente legata a questioni della società, della politica, dell’economia. Proprio sul potenziale economico dell’incoraggiamento nell’uso e nell’insegnamento della lingua italiana parla l’intervento di Giorgio Pagano; che tra l’atro dice:

“L'Italia non può continuare a favorire invece il processo di scalata inglese distruttiva della lingua italiana, con gli enormi costi di risorse umane e finanziarie che vanno ad ingrandire sempre di più il mercato anglo-americano e a restringere inesorabilmente quello italiano e dei nostri giovani, costretti ad impiegare 12.000 ore della loro vita per favorire il monopolio linguistico inglese e a sfavorire la loro stessa lingua".

Che il “processo di scalato inglese” sia distruttivo per la lingua italiana, è un’idea che mi trova d’accordo, anche se gran parte dei linguisti accademici non lo sarebbe. Io stesso inviterei alla prudenza; “distruttivo” non lo è ancora; lo sarà presto se la tendenza continua così forte e senza nessun ente che funga da filtro (non di controllo) come hanno le altre lingue europee. Ma lanciare l’allarme è una cosa che mi sembra giusta e doverosa, e che nel mio piccolo faccio, in questo spazio. Quanto segue, delle parole di Giorgio Pagano, è assolutamente giusto, e per di più evidente: il mercato “in italiano” è tutta una fetta di mercato che è penalizzata dall’anglicismo imperante. Ma sarebbe vero se gli italiani sapessero l’inglese! Cosa che - è sotto gli occhi di tutti - non è. E i turisti per primi se ne lamentano. Prova ne sia che il regolamento di twitter, per gli utenti italiani, è tradotto (leggi articolo). Cioè, si è creato del lavoro, c’è stato bisogno di un servizio.

Più avanti Giorgio Pagano sembra suggerire allora che non si insegni altro che l’italiano, sai quanto lavoro! quando afferma che: 
“La Gran Bretagna sul non insegnamento della lingua straniera nelle proprie scuole risparmia 18 miliardi di Euro l'anno, mentre l'Italia ne spende 60, di miliardi l'anno, per colonizzare la mente dei propri giovani nella sola lingua inglese.”

Molti neuro-linguisti affermano che sapere una lingua straniera aumenta la capacità di riflessione metalinguistica e quindi la conoscenza interna (o intima) della propria lingua materna; gli italiani, infatti, di questa consapevolezza ne hanno ben poca. Proprio per questo, d’altronde, non abbiamo le difficoltà che hanno spagnoli francesi greci portoghesi tedeschi ecc ad accettare parole straniere non adattate. Sarebbe quindi auspicabile che accanto a un insegnamento migliore della lingua italiana nelle scuole italiane si insegni, più degnamente di quanto non si faccia oggi, anche le lingue straniere; e, perché no, i dialetti e la letteratura dialettale migliore di tutte le regioni. "Colui che non sa le lingue straniere, non sa nulla della propria." (Johann Wolfgang von Goethe)

un volantino dell'ERA
Se la Gran Bretagna, che non ha un sistema vero di istruzione pubblica, vuole far restare ignoranti i propri cittadini questi sono affari suoi; d’altra parte gli inglesi, forse è sfuggito a qualcuno, parlano inglese. Cosa dovrebbe fare l’Italia? Non insegnare l’inglese nelle scuole, per risparmiare soldi? Ma siamo seri, per favore! È FONDAMENTALE che si insegni inglese a scuola; anzi, lo si insegna poco! E bisognerebbe anche farci studiare una seconda lingua straniera, magari meno approfonditamente, darci un infarinatura anche di spagnolo, o francese, o tedesco, o greco moderno. Una seconda lingua proprio per non “colonizzare la mente dei propri giovani”; cosa che accadrebbe se insegnassimo solo l’italiano. Cosa che accade quando, insegnando l’italiano, non facciamo alcun accenno ai dialetti e alle letterature dialettali.

Ma, ancora, ha ragione Giorgio Pagano a lanciare un allarme: non c’è pericolo che si smetti di insegnare inglese; il pericolo è che si smetti di insegnare (in) italiano! Come chi legge saprà, una delle proposte più spaventose dell’attuale ministro della pubblica istruzione Francesco Profumo è quella di istituire dei corsi interamente in inglese per attirare studenti stranieri. Roba da far tremare le ginocchia. Qui davvero si può usare la parola colonialismo.

Solo che il nostro è un colonialismo quasi autoimposto; “quasi” perché le pressioni anglicizzanti sono certamente forti; ma noi, in Italia, le accettiamo immediatamente e in certi casi, come questo, ce le inventiamo noi, queste pressioni. Credete forse che per attirare studenti stranieri la Francia, o la Spagna, facciano corsi in inglese? Lo fanno, e solo per le materie economiche, gli svedesi, e altri popoli che non hanno una forte tradizione linguistica; cosa che oi italiani infatti abbiamo solo a metà; solo per iscritto. E lo fanno i cinesi, che per attirare gli occidentali, davvero non possono pretendere che sappiano il cinese tanto bene da seguire un corso universitario.

Andare, per un italiano, a studiare all’estero è anche un occasione per imparare veramente una lingua straniera. Quello di cui non ci rendiamo conto è che i tedeschi, i francesi, gli spagnoli, che vengono in Italia a studiare, vengono anche loro per conoscere una lingua, una cultura, diversa. E i turisti, che vengono in Italia, in senso metaforico, non cercano pizzahut; ma la Pizza. Come noi a Parigi cerchiamo le crepes.

Una volta un francese mi chiese come si dice “ordinateur” in italiano. Gli risposi “computer”, e lui ne rimase stupito, un po’ divertito-un po’ infastidito; mi ricordò la reazione di una ragazza americana, una volta, nell’accorgersi che di fronte al Pantheon, a Roma, ci abbiamo piazzato un bel Mcdonald’s. Mi disse che a lei, da straniera, sarebbe piaciuto trovarci una specie di “pizza-pasta fast-food” … (vabbè, gli americani…).

Counque sia, l’italiano non si protegge non insegnando l’inglese; ma insegnando meglio l’italiano e di più l’inglese. Dividerli, ognuno nella propria bellezza e potenza di lingua; avere coscienza di entrambi come di due idiomi distinti, di modo che, forse, sviluppando meglio la riflessione metalinguistica, saremo meno pigri nella traduzione e eviteremo certi inutili intrusi nella nostra lingua.

Per rispetto innanzi tutto della nostra lingua italiana, e poi anche della bella lingua inglese.

Ant.Mar.

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