mercoledì 15 gennaio 2014

SELFIE: PAROLA DELL'ANNO. MA IN CHE LINGUA?



PAROLA DELL’ANNO 2013: L' Oxford Online Dictionary (da non confondere con il prestigioso Oxford English Dictionary, cartaceo) ha eletto “selfie” – una fotografia a sé stessi scattata da sé stessi – parola dell’anno in lingua inglese. Voi direte:  e che ce ne importa? Che parliamo inglese noi?, a quanto pare si. Per due motivi. Innanzi tutto, il fatto che “selfie” sia entrata di peso, quasi in contemporanea in inglese e in italiano, il che “testimonia la grande permeabilità agli anglismi”, come sottolinea l’Accademia della Crusca. Insomma, anche noi la usiamo, e molto. Fa parte del linguaggio internauta italiano. 

Ma, a quanto pare, parliamo inglese anche per un altro motivo, ancora più grave. Il fatto appunto che, non appena l’Oxford English Dictionary l’ha eletta parola dell’anno, subito le maggiori istituzioni linguistiche italiane, Treccani e Crusca, si sono sentite in dovere di creare l’entrata “selfie” nei loro dizionari in rete. 

INTRADUCIBILE: l’dea condivisa pare essere sempre quella. È intraducibile, in inglese è meglio, la nostra povera lingua decrepita non ha le parole, non riesce a star dietro all’inglese per la creazione di neologismi. Ma, in inglese i neologismi sono tanti proprio perché è una lingua parlata! E soprattutto, perché gli anglofoni non hanno paura, come invece abbiamo noi, di creare nuove parole con la loro lingua, o di dare nuovi significati a parole già esistenti.

Selfie sarebbe intraducibile perché la costruzione delle parole in italiano non ha una possibilità identica. Non dovremmo tradurlo, cioè tentare di adattare la lingua italiana a quella inglese, ma pensare direttamente in italiano! e selfie in italiano è il caro vecchio e semplice “autoscatto”.

Ah! Non oserai mica proporre di rinnovare leggermente la sfumatura di una parola italiana? L’autoscatto tradizionale è quello che fa scattare la foto con qualche secondo di ritardo, per dare il tempo di piazzarsi davanti all’obiettivo. Si, e allora? Le nuove macchine fotografiche – o meglio i cellulari – non hanno più bisogno di questa trovata. È cambiata la tecnologia, ma non per questo dobbiamo cambiare nome alle fotografie, e tanto meno all’autoscatto.

Ogni volta che una nuova parola inglese entra nel lessico parlato di una parte degli italiani, da un lato le istituzioni linguistiche ne discutono immediatamente, giustificando e autorizzando implicitamente il loro uso (clicca qui per approfondire), e dall’atro lato ci convinciamo che quella parola sia necessaria perché ci sembra introdurre un nuovo concetto, il che è falso il 90% delle volte. Come Blog, o Happy Hour eccetera (clicca qui).

Selfie è l’autoscatto, non raccontiamoci balle. Ma siamo così poco legati alla nostra lingua, così poco coscienti della nostra cultura e così poco padroni di noi stessi da adattare più facilmente una parola straniera – che introduce novtà potenzialmente dannose al sistema linguistico italiano – piuttosto che rinnovare, e di pochissimo, una parola già esistente.

Ant.Mar.

martedì 14 gennaio 2014

IL JOBS ACT DI MATTEO RENZI, UN AMERIHANO A FIRENZE



RENZIE : Sin dalla dichiarata intenzione di “rottamare” la vecchia politica, Renzi si presenta come un “giovane”, il nuovo che avanza e tutto i resto; vuole farci credere di rappresentare la possibilità di un cambiamento nell’ottusa e arrugginita società italiana. E ovviamente, con un’associazione di idee che è tutt’altro che giovane, e molto provinciale o arciitaliana, giovane da noi vuol dire ‘mezzo americano’. Potrei introdurre l’argomento richiamando scherzosamente l’ormai noto miscuglio, provincialissimo e creato ad arte, tra la figura di Renzi e Fonzie, raggrumato in RENZIE. Un americano a Firenze. Alberto sordi era ‘mericano; Renzi è piuttosto “amerihano”, con la gorgia.
 
“Cos’è la destra, cos’è la sinistra”, si chiedeva Gaber; a seguire la logica di quella canzone, di sicuro l’America non era molto di sinistra una volta, ma soprattutto uno come Fonzie è… “sempre in fondo a destra”, in quello che lui chiamava il suo ‘ufficio’.

Ma andiamo al punto: Renzi è talmente amerihano da aver proposto, come sua prima azione significativa da novello segretario de PD, niente popò di meno che un “job (o jobs, o job’s) act”. In Italia, dove, sembra ci sia bisogno di ricordarlo, si parla italiano, un politico concittadino di Dante, e italofono, fa un job act.
 
Una sola parola, ben sillabata: Ri-di-co-lo. Come ridicola era (è) la Spending Review (cfr articolo). Ridicolo per almeno 3 motivi.

lunedì 13 gennaio 2014

CONTRO LA DITTATURA DELLA LINGUA INGLESE (Diego Fusaro)

Un breve video in cui Diego Fusaro ci spiega velocemente perché viviamo una dittatura della lingua inglese - autoimposta per molti versi - e perché non dovremmo accettarla passivamente. Buona visione.




sabato 11 gennaio 2014

“GLI” : UNA PROVA DELLA PARITÀ DEI SESSI NELLA SOCIETÀ CHE SI RIFLETTE NELLA LINGUA?



Spesso si sentono delicate orecchie puriste lamentarsi per l’ormai diffusissimo uso generalizzato del “gli” per indicare non solo il dativo di lui (a lui), ma anche per il femminile “a lei”, che la tradizione vorrebbe che sia “le”, e il plurale (femminile e maschile) che la norma vuole che sia “loro” messo dopo il verbo. 

Gli ho dato un bacio vs. le ho dato un bacio vs ho dato loro un bacio: oggi “gli ho dato un bacio” può essere usato per indicare tutti e tre i casi.

Per il plurale soprattutto, è ormai una rarità sentire “loro” posposto, se non in ambiti molto controllati e tra persone di una certa cultura e di molta attenzione. Personalmente non ci vedo niente di male, anzi, mi pare decisamente più semplice il “gli”, per cui, niente da dire.

Vorrei invece riflettere sull’uso ambivalente, per non dire neutro, del “gli” che si sostituisce al “le”.
Se colleghiamo questo uso che ormai sembra essersi imposto nella maggioranza dei casi (anche se meno, mi pare, del “gli” plurale) con la “battaglia” per femminilizzare i lavori tradizionalmente maschili – e viceversa – la cosa si fa molto interessante.

Le ipotesi possibili sono due.

giovedì 9 gennaio 2014

LA QUESTIONE DEL SEGNALARE ENTRAMBI I GENERI IN LINGUA, E 'PROSTITUTE/I'



Il merito fondamentale del movimento femminista è stato, ed è, quello di fare una impietosa critica ideologica e culturale alle nostre società, atta a denunciarne (o a decostruire) alcune costruzioni mentali ereditate da secoli (millenni) di sottomissione sociale della donna rispetto all’uomo. E nessuno oserebbe negarlo, se non in malafede. 

Ma non credo si possa negare d’altronde che talvolta, e specialmente negli ultimi decenni, questa critica ideologica ha preso delle pieghe estremiste, che, certo, partono da idee incontestabilmente giuste ed esatte, ma approdano a quelle che non esito chiamare esagerazioni. 

Quello che qui ci interessa è la lingua, campo in cui assistiamo a una di queste esagerazioni. Può una lingua essere maschilista? No. Una lingua può – e anche su questo ci sarebbe da discutere – rispecchiare una certa cultura, e quindi rispecchiare il maschilismo di questa. E, più in particolare, una lingua rispecchia il pensiero della persona particolare che la utilizza – persino i lapsus ci dicono qualcosa sull’inconscio degli individui. 

Per capirci: non sono le pistole a uccidere, ma le persone. Cristallino: una lingua non è né maschilista né femminista, le persone lo sono. Se dico “tutti” indicando un gruppo composto sia da uomini che da donne, non vuol dire che io sia maschilista; tutt’al più vuol dire che sto parlando italiano.

Questo significa, ovviamente, che se in italiano non esiste(va) il femminile di certi lavori (né il maschile di altri, fatto spesso dimenticato), questo è perché la società italiana è sessista, non la lingua italiana. E significa di conseguenza che se la società cambia, cambia anche la lingua, necessariamente. E sta cambiando, nonostante certe resistenze.  Infermiere/a, o ministro/a ormai possiamo cominciare a considerarle, con una certa prudenza, parole entrate nel lessico comune.

Tuttavia (cfr. articolo) l’importanza di tutto questo è innanzi tutto politica, il che sia chiaro, conta molto. All’università di Lipsia, in Germania, addirittura si è deciso di abbandonare il maschile “professore” e chiamare tutti, anche gli uomini “professoresse”, operazione che ha un suo perché, ma che suscita anche qualche “ma” (clicca qui per approfondire).

martedì 7 gennaio 2014

SUL FAMIGERATO "KE" AL POSTO DI "CHE"

Da qualche tempo gira sulla rete questa immagine, niente affatto nuova, ma recenteente tornata alla ribalta. La cosa mi stimola una piccola presa di posizione.

D'altronde, non è la prima volta che ne parlo, ma l'avevo fatto in relazione con gli anglicismi (cfr. articolo); e poi, si dice, repetitia juvant

Per quanto riguarda la sterile battuta sul "tempo che risparmiate", rimando a questo articolo, in cui ne parlo più specificatamente: (clicca qui).

So che provocherò una grossa polemica, ma io ho un'opinione controcorrente sul -k- al posto di -ch-. A parte il fatto che non vedo niente di male nell'uso di abbreviazioni e segni diacritici - usatissimi sin da quando esiste la scrittura - a patto che si sia coscienti che di abbreviazioni si tratta; io ritengo (ma non è un'opinione quanto un dato linguistico chiaro) che la -k- sia addirittura migliore del nesso ch. Per vari motivi.

1: Oggi usiamo due lettere per rappresentare un solo suono; altrimenti detto, quella -h- serve solo a indicare che la C ha un suono gutturale (k) e non fricativo (c), e questa è la sua unica giustificazione. è un segno diacritico, che potrebbe essere sostituito, per dire, da un puntino sopra la c, senza che nulla cambi. Idem per la -i- in parole come "CIAuscolo": serve solo a indicare il suono della -c-. (stesso discorso per la G: già vs. gatto; ghetto vs. getto ecc.)
2: Nell'altro senso: oggi usiamo un solo grafema (la -c-) per rappresentare due suoni ben distinti: la c e la k. E idem per la -G-
3: L'italiano è una lingua con un sistema grafico molto fedele all'orale, rispetto ad altre lingue (come l'inglese e il francese). Ma il fatto che lo scritto sia lo specchio dell'orale è un banale errore, un'illusione. Il -k- al posto del nesso -ch-, però, va proprio in questa direzione: rende lo scritto decisamente più vicino all'orale. A una lettera corrisponde un suono e uno solo. Non a caso "che", in alfabeto fonetico interazionale (IPA), si trascrive appunto /ke/.
Queste alcune, non tutte, delle giustificazioni in favore di "ke". 

Le motivazioni di condanna, invece, sono sul registro del: "è brutto", "è da ignoranti", "è sbagliato (!!)" ecc.
Insomma, se lo consideriamo in maniera più seria e profonda (non oso dire "scientifica"), senza farci prendere da narcisistiche condanne dei "Gggiovani" e dei "bimbominkia", mi pare che il -k- sia del tutto giustificabile, e anzi, persino più esatto dell'uso odierno. 

E ora, vai con la polemica!

Ant.Mar.